di Guia Soncini
Era uno di quei personaggi leggendari che produceva il mondo dello spettacolo d’una volta, con una voce con dentro un milione di sigarette, disperazioni, vite, follie, e una discesa davanti ai poliziotti nuda in pelliccia
L’ultima volta che avete visto Marianne Faithfull è stata ad agosto. Era morto Alain Delon e, per quanti gattopardi e piscine potessero esserci nella sua vita, la sua foto più leggendaria era quella in cui Marianne gli sorrideva flirtosa, seduta su un divano in mezzo a lui e a Mick Jagger, che in quella foto interpreta il ragazzino ignorato perché è arrivato il bello della scuola. A volte neanche essere Mick Jagger basta a essere Mick Jagger.
L’ultima volta che ho parlato di Marianne Faithfull è stata a dicembre. La conversazione aveva per oggetto Noël Coward – un drammaturgo d’inizio Novecento che non avete mai sentito nominare – e io volevo che tutti sentissero la sua “Mad about the boy” incisa da Marianne. Che è introvabile perché, regalo della smaterializzazione dei prodotti culturali, il cd in cui stava non è su Spotify (vi vedo che guglate e trovate l’imminente film di Bridget Jones e vi chiedete se sia quello: no, non lo è).
“Mad about the boy” è non so se l’unica ma sicuramente la prima (è degli anni Quaranta) canzone sulle relazioni parasociali. L’io narrante, quella che va pazza per il ragazzo, è una signora che s’innamora d’un attore sullo schermo. «Me ne vergogno molto, ma devo ammettere le mie notti insonni per il ragazzo». Cantata da Marianne era speciale per ragioni che oggi vengono prese per malsane o sessiste e che invece, se eri Marianne Faithfull e a diciassette anni te n’eri andata dal convento per scoparteli tutti, erano punti di forza.
Perché il ragazzino sullo schermo te lo vedevi con le fattezze di Mick Jagger o forse di Keith Richards (Mick fu un amore di ripiego, Marianne aveva una cotta per Keith). Perché nella voce di Marianne c’erano un milione di sigarette e di disperazioni e di vite e di pazzie.
Non ho qui l’autobiografia che scrisse trent’anni fa (trovo molto scortese morire quando sono lontana dalla mia biblioteca), ma a un certo punto Marianne diceva che in tutti i gruppi sociali c’è una pazza, una cui tocca quel ruolo, quasi sempre una donna, e in quel giro la pazza era lei, e poiché quel giro viveva sulle pagine dei giornali scandalistici finì che lei era notoriamente pazza.
Quando lessi quel passaggio pensai subito a Redland, che era la storia preferita d’un caro amico il cui tema elettivo di conversazione sono i Rolling Stones. Redland è la tenuta di campagna in cui la polizia fa una retata perché, ma tu pensa, forse gli Stones si drogano. È il febbraio del 1967, lo stesso anno in cui Marianne gira “Nuda sotto la pelle” con Delon.
Mick e Keith hanno ventitré anni, Marianne ne ha venti. Dice la leggenda che la polizia che fa irruzione a Redland la trova con, infilata nelle innominabilità, una barretta Mars, quelle di cioccolato con dentro il caramello. La signor Faithfull, che non aveva paura di parlare delle leggende indicibili, ha sempre negato fosse vero, motivando razionalmente l’impossibilità di quello zucchero in corpo: aveva appena fatto la doccia. Però al processo riconobbe un tappeto di pelliccia, precisando che sì, era quello in cui si era avvolta per scendere dalla scala che portava alle camere da letto, e raggiungere la polizia al piano terra.
Quando ci chiediamo perché il mondo dello spettacolo d’una volta producesse personaggi leggendari e quello di ora al massimo Angelo Duro, forse dovremmo tener conto di come non ci sia neanche un fotogramma, neanche una prova, neanche un trending topic piccino picciò di una delle più spettacolari leggende della storia del rock. Marianne che scende la scala nuda sotto la coperta di pelliccia, e i poliziotti che mi piace immaginare ammutoliti. Diceva Marianne decenni dopo che, quando incontrava Keith in qualche aeroporto, si sentiva come se fossero due compatrioti d’un regno ormai svanito, due che non si rassegnano alla scomparsa delle vite di allora.
L’autobiografia di Marianne Faithfull, che credo non sia mai stata tradotta in italiano, è una delle moltissime dimostrazioni che i drogati del secolo scorso avevano più spirito d’osservazione dei salutisti di oggi. Le osservazioni di Marianne su Andy Warhol – che si droga solo se è in compagnia di drogati per ottenerne la fiducia, come un poliziotto sotto copertura – o su Mick, il cui unico vero amore è Keith, sono più precise di quelle di molti il cui lavoro è stato raccontare Warhol o Jagger.
L’unica volta che ho visto Marianne Faithfull eravamo al festival di Berlino, io ero una ventottenne scema e lei aveva fatto una parte in un film tratto da “Nell’intimità”, il romanzo di Hanif Kureishi. Il film dava scandalo per le scene di sesso (non simulato, ci tenevano a precisare tutti) dei protagonisti, e io le chiesi se avrebbe mai accettato una parte piena di sesso come quella della protagonista.
Lei mi guardò come le adulte guardano le ragazzine sceme, e mi rispose come quelle che sono state le donne più belle del mondo rispondono a quelle che non possono neanche immaginarsi cosa significhi essere stata la donna più bella del mondo: «Ho cinquantacinque anni».
Poiché ero giovane e scema, pensai bene d’insistere: vabbè, ma se la parte gliel’avessero offerta a trent’anni. «L’avrei fatta. E l’avrei fatta benissimo».
Marianne Faithfull è morta un mese dopo aver compiuto settantotto anni, e chissà da quanti anni le sembrava sconveniente girare scene di sesso. Mick Jagger e Keith Richards stanno benone, e a me viene in mente la stessa immagine che mi aveva evocato, otto anni fa, la morte di Anita Pallenberg. Tutte le loro donne, quelle di quando erano giovani e belli, che muoiono, e Mick e Keith tenaci come Aldo Fabrizi in “C’eravamo tanto amati”, in quella scena in cui urlava dispettoso: io nun mòro.
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